Fame d'aria, Daniele Mencarelli
Mencarelli per la prima volta, dopo la trilogia autobiografica, si mette nei panni di un altro e racconta la storia di una paternità difficile.
Pietro, infatti, è un padre speciale. Suo figlio Jacopo, 18 anni, è affetto dalla forma più grave di autismo.
Pietro e Jacopo si ritrovano nel paese sperduto di S. Anna del Sannio a causa del guasto della vecchia macchina di Pietro. C'è un solo meccanico, e un solo albergo in paese. E dunque a padre e figlio tocca aspettare e farsi conoscere dalla gente del posto. La disabilità di Jacopo è evidente: genera sconcerto, stupore, un po' di curiosità, sicuramente commiserazione.
Presentare il figlio ad una comunità nuova è come mettere il dito nella piaga della sua diversità.
La situazione proposta nel racconto è delle più estreme, ma purtroppo comune e veritiera: la forma gravissima di Jacopo, la solitudine della famiglia e l'indigenza che rende difficile le
terapie.
E Pietro è un uomo deluso: deluso da ciò che è diventato, deluso da ciò che la vita gli ha riservato. Pietro è un padre che ha perso la speranza, prima di tutto di diventare l'uomo che sperava di essere. E' un uomo il cui orgoglio si è completamente sbriciolato. E come diceva Mina, gli uomini sono "... fatti di briciole che ... l'orgoglio tiene su..." . E un padre, in questo caso speciale, non fa eccezione.
Che la genitorialità sia uno spartiacque è un fatto. Segna, generalmente, l'inizio delle vere responsabilità e la fine della spensieratezza. Quando poi le aspettative vengono tradite da una diagnosi senza appello, ogni famiglia conosce il dolore e la sua elaborazione, ma anche l'isolamento sociale.
E Pietro sostituisce l'orgoglio con la rabbia, che è l'unica a tenerlo in piedi.
Un romanzo che indaga senza pietà l'anima e la condizione di un padre che deve fare i conti con troppe cose.
Mencarelli aveva già affrontato il tema del disagio mentale in "Tutto chiede salvezza" dello stesso autore: si vede che il tema gli sta a cuore, o forse ne subisce il fascino e il mistero. Questo è un romanzo sicuramente più efficace del primo, o forse lo è stato per me, data la mia storia familiare.
Qualche errore c'è, salta all'occhio sia del lettore esperto che di chi conosce l'autismo.
Chi conosce l'autismo sa che non è una malattia: l'autismo è una sindrome, una condizione di vita che accompagnerà chi ne è affetto per tutta la vita, da cui non si guarisce. Ci sono delle terapie che aiutano le persone nello spettro autistico (a vari livelli) a condurre una vita dignitosa e felice.
Pietro si lamenta spesso di quanto abbia speso e di quanto poco abbia ottenuto, ma l'occhio clinico di chi ha una storia simile vede un ragazzo ombra del padre, messo all'improvviso in un contesto che non conosce, con persone, cibi e cose che non sono i suoi, e che ha un solo meltdown. E questo è un grande traguardo educativo per un ragazzo a così basso funzionamento, che senza terapie sarebbe irraggiungibile. Solo che le terapie servirebbero a tuta la famiglia, fratelli e genitori compresi. Ma questa è un'altra storia.
"A parte il sacrificio, la questione è un’altra, la vuoi sapere?
... Che se a ogni uomo e donna di questa terra dicessero quanto è difficile fare figli normali, nessuno ne farebbe più. Basta un niente, una proteina non assimilata, un enzima che non fa il suo lavoro. La normalità è come un biglietto della lotteria. Invece tutti pensano che sia naturale il contrario. Che un figlio è come un elettrodomestico, costruito per funzionare alla perfezione. Soltanto chi ci passa sa quante competenze ci vogliono per attraversare una strada, per prendere una penna in mano."
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Due chiacchiere con Corie ....: