I Viceré, Federico De Roberto

"Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri…”

 Nell'anno in cui tutti stanno riscoprendo il Gattopardo (è appena uscita la serie Netflix con Kim Rossi Stuart, a memoria dei posteri), io ho iniziato da I Viceré. E ho iniziato da De Roberto per uno di miei grossolani fraintendimenti dovuti all'ignoranza, e cioè pensando si trattasse di un romanzo ambientato nel '600. 

Ma non li hai studiati a scuola? NI. Sempre male, sempre come un'opera minore, laddove la maggiore era quella di Tomasi di Lampedusa, che comunque vorrò riprendere. 

E dunque ricordavo che fosse stato scritto alla fine dell'800 (1894) ma non ricordavo che periodo riguardasse. 

Se non ve lo ricordate neanche voi, riguarda il Risorgimento, precisamente gli anni che vanno dal 1854 al 1882. I fatti sono quelli degli Uzeda, precisamente gli Uzeda di Francalanza, nobili catanesi discendenti da uno dei viceré di Sicilia. Il tutto si svolge nel giro di due generazioni.

Benedetto Croce lo denigrava, lo tacciava di essere noioso; Sciascia lo considerava il romanzo storico più importante dopo I promessi sposi. Quello che è certo è che è un romanzone: più di 600 pagine e tanti personaggi. Se si superano le prime 100 pagine, le altre scorrono velocemente, tra intrighi politici e capricci della nobiltà.

Tutto inizia con la morte della Principessa Teresa, vedova e potentissima, e con il suo testamento. Solo la parte del testamento occupa più di 60 pagine. 

Se non altro perchè non c'è occasione migliore per presentare i personaggi per quello che sono, anche se noiosa, la parte è necessaria. 

Su sette figli, 4 maschi e tre femmine, a ereditare (quasi) tutto sono in due: il primogenito Giacomo e il terzogenito Raimondo, il preferito della principessa madre che, in barba ad ogni legittima, lo rende erede universale insieme al fratello. I due, con le rispettive vicissitudini sentimentali, sono anche i maggiori protagonisti, sebbene le figure femminili di Chiara e Lucrezia siano assolutamente di gran fascino per il lettore.

Da questo momento in poi i macrotemi su cui si snoda il lungo racconto sono due: la politica e la famiglia. A patto di orientarsi bene nelle parentele (il famoso "a chi appartieni" delle grandi saghe familiari), dopo il testamento il lettore troverà di che divertirsi.

Intanto, il periodo storico è delicatissimo: la vecchia nobiltà è divisa tra garibaldini e borbonici. Da una parte  zio don Blasco, un benedettino energumeno, litigioso e donnaiolo che sbraita contro la rivoluzione atea e anticlericale imminente (almeno per gran parte del racconto),  e dall'altra Consalvo, il rampollo di casa Uzeda, figlio di Giacomo, refrattario ad ogni regola, appassionato di politica, che saprà giocarsi bene le sue carte facendo leva sulla sua posizione sociale fino a diventare deputato. Consalvo è l'unico, che io sappia, ad avere un corrispettivo nella realtà: sembra sia ispirato alla figura storica di Antonino Paternò Castello, marchese di san Giuliano.

Insieme a loro, in politica, con grande passione ma poca fortuna,  Benedetto Giulente, marito di Lucrezia, avvocato garibaldino, ferito nella battaglia del Volturno: un acquisito della famiglia, che ne rimane estraneo in fondo: un personaggio pulito, l'unico che si salva dal marciume di casa Uzeda. A pensarci bene, l'altra che si salva è Matilde Palmi, prima moglie di Raimondo (da cui lui avrà l'annullamento): un altro animo puro che finirà sconfitta e sopraffatta dalla tirannia della famiglia. 

E veniamo alla famiglia. La famiglia disfunzionale non è certo un'invenzione del '900: basta leggere i Viceré. Gli Uzeda sono una famiglia avida, capricciosa, marcia, la cui vena di follia e decadimento fisico rende il tutto leggermente gotico, dando alla lettura quel retrogusto bianco e nero, misterioso e decadente.  Intanto la razza degli Uzeda di Francalanza, dalle mitiche origini aristocratiche associate alla bellezza dei componenti, dimostra ad oggi una progressiva bruttezza, culminata con la scesa del parto di Chiara. 

Secondo me è il cuore del romanzo. Una scena splatter, nella quale la meschinità delle ostetriche (che pensano al mancato riconoscimento economico di quel parto fallito) fa a gara  con l'orrore del nascituro. Eppure Chiara contempla la sua creatura messa sotto spirito un contenitore di vetro con una vena di follia che ci lascia sbigottiti. Chi non la conosce, tornerà a rileggere la pagina, per controllare che abbia capito bene.

Capricciosi nel DNA, gli Uzeda ottengono tutto ciò che desiderano: prendiamo Lucrezia, ostinata nello sposare Benedetto, di sangue borghese, per poi disprezzarlo dopo il matrimonio per lo stesso motivo per cui lo ha sposato. O Raimondo, che ottenuto l'annullamento da Matilde, si stuferà anche di Isabella. 

Come se i segreti della loro sopravvivenza siano stati il potere, la violenza, la sopraffazione: si sentono vivi nella prepotenza (Raimondo con la prima moglie, Lucrezia con il marito, Chiara con Federico, sebbene in maniera diversa). Litigiosi tra di loro, si fanno la guerra per ogni cosa, eppure talmente chiusi in se stessi, nella loro narcisistica arroganza, da seminare disperazione e morte intoro a loro. Non possiamo dimenticare Giovannino Radalì, ultima vittima delle logiche della famiglia. 

I Viceré è un romanzo moderno: ce lo hanno fatto studiare come vicino al naturalismo, al verismo, per via di questa scelta dello scrittore di non giudicare i personaggi. Eppure De Roberto parla eccome: se ne avverte la rabbia, la volontà di svegliare le coscienze, il giudizio  trasformismo, l'affarismo, l'amoralità dei ricchi, ma soprattutto il romanzo è moderno perchè la sofferenza esistenziale si avverte in ogni pagina. 

Forse non conquista al primo sguardo: il ritmo lento dell'inizio può scoraggiare, ma dategli una possibilità e andate avanti. E' un romanzo che ricompensa.

"Prima, se le cose andavano male, se il commercio languiva, se i quattrini scarseggiavano, la colpa era tutta di Ferdinando II: bisognava mandar via i Borboni, far l’Italia una, perché di botto tutti nuotassero nell’oro. Adesso, dopo dieci anni di libertà, la gente non sapeva più come tirare avanti. Avevano promesso il regno della giustizia e della moralità; e le parzialità, le birbonate, le ladrerie continuavano come prima: i potenti e i prepotenti d’un tempo erano tuttavia al loro posto! Chi batteva la solfa, sotto l’antico governo? Gli Uzeda, i ricchi e i nobili loro pari, con tutte le relative clientele: quelli stessi che la battevano adesso!"

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