La cripta dei cappuccini, Joseph Roth

 Sapevo che mi sarei seduta su una panca di legno.
Questa volta non solo sola: mi ritrovo accanto il pronipote dell'eroe di  di Solferino, Franz Ferdinand Trotta.
Ho avuto il suo sguardo a raccontarmi tutto. 
E il viaggio è stato un po' meno scomodo.
Intanto, partivamo dalla Vienna asburgica.

E' un bel ragazzo, Franz. Suo padre lo ha chiamato così in onore dell'erede al trono degli Asburgo, anche se lui è ormai è un giovane adulto, e non considera abbastanza di moda professarsi fedele alla Corona.

Vive in una bella casa, ha una vita agiata, spende soldi con facilità, fa finta di studiare, gli piace frequentare locali notturni con i suoi amici altrettanto belli, titolati, e pieni di soldi. Parlano di politica con la sicumera di chi non ne ha bisogno, ogni tanto frequentano donne disponibili. Indolenti, godono della loro dorata gioventù, non vogliono impegni sentimentali, sono mordaci e "decadenti".

E il nostro protagonista è proprio un pariolino, diciamoci la verità: un pavido pariolino. Sebbene sia capace di sentimenti più profondi, non ha una personalità grintosa. Tutt'altro. 

Si nasconde, cerca di passare inosservato, di confondersi nella massa della gioventù, fin quando può. Sin dalle prime pagine è uno che difficilmente prende iniziative, se non costretto dagli eventi. 

Così, per esempio, quando decide di sposare Elisabeth. Di lei non aveva fatto parola con nessuno, né con i suoi amici, né con sua madre. O quando, verso la fine del romanzo, le intima di andare a vivere con lui: lo fa in un rarissimo gesto di rabbia, data la disastrosa questione economica a cui, naturalmente, non sa far fronte.

Il romanzo inizia nel 1913, alla vigilia della Prima guerra mondiale, e si conclude nel 1933, anno dell'Anschluss.

Tutta la prima parte del romanzo ha una tensione palpabile: la descrizione di una generazione che si affaccia sull'abisso, ma che preferisce voltarsi dall'altra parte.

La morte incrociava già le sue mani ossute sopra i calici dai qua li bevevamo. Noi non la vedevamo, non vedevamo le sue mani

Nella pigra vita di Franz  la svolta avviene quando  ne entrano a far parte un cugino, Joseph Branco, di professione caldarrostaio e proveniente dalla Slovenia (come il ramo originale della famiglia). Si presenta per riscuotere un'eredità lasciatagli dal cugino, padre del nostro giovane gaudente nottambulo. Entra poi anche Manes Reiseger, il vetturino ebreo amico del cugino, che gli chiede di sponsorizzare il talento musicale di suo figlio e farlo entrare al Conservatorio.

Manes Reiseger lo invita a passare l'autunno nella sua casa in Galizia, dove lo raggiungerà Branko.

Il contrasto con il proprio modo di vivere, la possibilità di un'avventura che rompa il torpore delle sue giornate, la sincera operosità dei suoi nuovi conoscenti, e quella fedeltà all'Imperatore che Francesco Ferdinando certo non conosceva nella banda dei suoi giovani amici, lo spingono ad accettare l'invito. 

E conosce l'Impero così come non sarà più (tema portante del romanzo). Da lì a 5 anni non si sentirà più a casa in una Regione diversa dell'Impero, così come si sente ora in Galizia, e come si era parimenti sentito fino ad allora ogni volta che aveva viaggiato. Ecco la testimonianza di un patria pacifica e multietnica: il cuore dell'Impero batte nelle sue periferie.

E infatti ai suoi popoli che l'Imperatore si rivolge quando si tratta di annunciare la Guerra. 

Il racconto Franz Ferdinand in guerra è un piccolo gioiellino: la bellezza di questo personaggio è la coerenza con la sua volontà di osservare e mantenersi ai margini: la riflessione immobile del giovane viennese stride con l'ingenuo buonumore di suo cugino e del vetturino ebreo.

Ed ecco il ritorno dalla guerra. Vienna non è quella che ricordava. Ma lui è rimasto quello che era. 

Non avevo paura della morte, ma avevo paura di un ufficio, di un notaio, del direttore di un ufficio postale. Non ero capace di fa re i conti, tutt’al più una somma, se proprio occorreva. Ma una moltiplicazione era già un supplizio.

In tutta la seconda parte del romanzo troneggiano due figure femminili, antitetiche e necessarie. La madre innanzitutto. Se nel primo volume di questa saga della finis austriae (La marcia di Radesky, ndr), la figura paterna si rivelava di incommensurabile levatura affettiva e morale, qui il protagonista si confronta con due figure femminili: la madre e la futura moglie. Non potrebbero essere più diverse. La madre è l'Impero: la sua compostezza, la sua severità glaciale, la sua eleganza sono tutto quello che ha rappresentato Vienna finché è stato vivo il suo imperatore.

E poi c'è Elisabeth: una figura moderna e ambigua. 

"Pensai che avrebbe ordinato un liquore. Ma invece chiese würstel con rafano."

Elisabeth viene da una famiglia di recente nobiltà, e non disdegna il lavoro: apre un suo atelier di artigianato, stringe una asfissiante amicizia con una collega: il marito si indebita per lei, ipoteca la casa, addirittura la trasforma in un pensionato. 

E infine ... (no, non posso dirlo)

Certo, la seconda parte è quella più sentimentale, e dunque più coinvolgente, ma la malinconia si respira ad ogni pagina. E la malinconia diventa ben presto solitudine.

Il Trotta di questo romanzo è un esule, prima di tutto nell'animo: è confuso, intorpidito, immobile. Lascia andare tutto perchè non è in grado di gestire niente. 

Dove devo andare, ora, io, un Trotta?

Sono meno di duecento pagine, ma quanto ancora ci sarebbe da dire. Bellissimo. Leggetelo.

La cripta dei cappuccini
Die Kapuzinergruft
Joseph Roth
Adelphi, 2014 (Gli Adelphi) 
195 p. 

Commenti

Storie del blog