Nel blu tra il cielo e il mare, Susan Abulhawa
Nel meraviglioso, spiritoso e ingenuo incipit di questo romanzo c'è il tono di tutta la storia.
Un romanzo che racconta con gli occhi di un bambino una prigione a cielo aperto.
Tutto inizia nel 1948, quando, proclamato lo Stato d'Israele e decisi i confini, i Palestinesi sono costretti a lasciare le loro case.
La famiglia Baraka, un madre senza marito e i suoi tre figli, deve abbandonare la casa di Beit Daras trovando rifugio nella Striscia di Gaza. Inizia così per tutti loro la vita nel campo profughi, senza che perdano mai la speranza di tornare, un giorno, a casa.
Una saga familiare lunga quattro generazioni, dove protagoniste assolute sono le donne. La voce narrante è quella di Khaled, 10 anni, ridotto in stato vegetativo dopo un attacco aereo ad opera degli israeliani, sospeso tra la vita e la morte (Nel blu tra il cielo e il mare).
La vita è dura nel campo profughi, inutile girarci intorno, le storie che vengono raccontate sono dolorose: sono storie di violenze, di abusi sessuali, di boicottaggio dei beni essenziali, di diritti violati, di povertà, di disabilità, di crudeltà.
Anche quando la narrazione si sposta in America (uno dei fratelli riesce a emigrare negli Stati Uniti) accompagnamo la piccola Nur, ultima della quattro donne della famiglia, in una storia di abbandono e sopraffazione.
L'inganno americano, le false promesse di salvezza e paradiso in terra, cadono a pezzi e si rivelano briciole pronte a sgretolarsi.
L'America non è altro che la violenza che prende forme diverse, e sotto una patina di lucentezza e facilità rivela tutto il marcio e l'inganno di cui è capace.
Dall'altra parte del mondo, a Gaza, dove Nur ritroverà la sua famiglia palestinese, c'è il calore che ha sempre cercato. Gaza non è solo morte. A Gaza, Nur scoprirà cosa vuol dire famiglia: insieme al dolore e alla malattia c'è il conforto, la sorellanza, ci sono le risate e le battute impertinenti e un po' sboccate delle donne, c'è la tenerezza dei bambini, c'è la consolazione per un amore perduto, o forse mai vissuto.
Nur, che vuol dire Luce, la ragazza americana che grazie alla sua professione medica riesce a partire per la Striscia di Gaza, è forse il personaggio più autobiografico.Susan Abulhawa é nata in un campo profughi del Kuwait e cresciuta in un orfanotrofio a Gerusalemme. Emigrata in America, ha conosciuto tante famiglie a cui è stata affidata. E spende per il personaggio di Nur delle bellissime parole sulle conseguenze dell'abbandono, sull'impronta nell'animo del rifiuto materno.
Come Nur si è laureata in Scienze biomediche e milita nell'associazione Playground for Palestina da lei fondata nel 2001.
Nonostante il dolore, è un libro pieno di speranza. Il realismo magico dona quella giusta dose di poesia alla narrazione, che rimane una lettura doverosa e di denuncia, eppure delicata per il carico di leggende, di storie personali, ma soprattutto grazie allo sguardo puro di Khaled.
Di tutte le cose che scomparvero a Gaza, gli ovetti Kinder furono quella che mi mancò di più. Quando Gaza venne murata e le conversazioni tra adulti si fecero più infervorate e più tristi, potei misurare la durezza del nostro assedio dal diminuire, sugli scaffali dei negozi, dei delicati ovetti di cioccolato con la loro sottile stagnola policroma e le splendide sorprese-giocattolo. Quando alla fine scomparvero del tutto e gli scaffali arrugginiti mi guardarono spogli e sconsolati, capii che gli ovetti Kinder avevano dato colore al mondo. Senza di loro le nostre vite prima assunsero una metallica tonalità color seppia e poi sbiadirono fino a diventare in bianco e nero, come nei vecchi film egiziani di quando mia nonna Nazmiyeh era la ragazza più sfacciata di Beit Daras.
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Due chiacchiere con Corie ....: